di Francesca Luzzio
Guglielmo Peralta nel saggio “La via dello stupore” ripropone in modo
organico e coerente la sua visione est-etica, quale egli ha già proposto
attraverso un manifesto artistico-letterario nella rivista della SOALTÀ, fondata nel 2004 e la sua produzione poetica e saggistica.
Peralta, filosofo-poeta, vive come tutta l’umanità in questo mondo, dentro
questo mondo malato, ma egli, poeta, sa separarsi da esso e “con sguardo soale”
che insieme unisce sogno e realtà, ricondursi dentro il mondo che tale sguardo genera
a partire dal sogno: il mondo dello sguardo soale, ossia il mondo della poesia
che, catartica, potrebbe rigenerare il
mondo e l’umanità. “Ma la poesia che ammanta di leggiadra veste il creato, non
fascia per intero l’umanità che, per buona parte, resta arida e nuda” (pag.47).
Da quanto suddetto, si desume che per Peralta il
sogno non è un fenomeno riconducibile alla dimensione onirica, ma è il nous aristotelico, cioè l’intuizione, l’immaginazione
creatrice, le idee, i pensieri derivati dallo sguardo rivolto ”dentro” nello
spazio dell’interiorità o della soaltà. Questo neologismo, nato dalla crasi di
sogno e realtà, indica il mondo quale il poeta lo concepisce nella mente e
quale vorrebbe che fosse, se “la voce
dei poeti” non restasse “inascoltata”. “L’occhio
ha una visione difettiva della realtà poiché non coglie il sogno nelle cose, il
processo d’incarnazione del sogno” ( pag.12). Se invece si solleva il sipario dietro
le palpebre, si apre dentro di noi un "palcoscenico" - la realtà del
mondo interiore - su cui si rappresentano
le "visioni", le idee che lo sguardo dell’io concepisce e di cui è, perciò,
insieme attore e spettatore perché osserva ciò che esso stesso ha intuito. La
realtà dunque dovrebbe essere un processo d’incarnazione del sogno, ossia della
visione del mondo, che acquista un corpo che,
in quanto contiene in sé la concretizzazione del sogno, diviene soaltà. Il
sogno di Dio è divenuto soaltà con la creazione che ha posto in atto la potenza
della sua perfezione e della sua bontà. Il poeta, esito più alto del sogno
divino, intuisce, guardandosi dentro, tale sogno e ne diventa l’immagine
riflessa, attraverso la parola che propone la bellezza e la bontà quali dovrebbero
essere nella soaltà, ossia in un mondo intriso della volontà del Creatore. Insomma,
come sostiene Schopenhauer, l’artista coglie intuitivamente, attraverso l’arte,
il proprio io, le idee di oggettivazione fuori dal principio di ragion
sufficiente (ossia spazio, tempo e causalità). Ma l’affermazione della
supremazia delle arti non perviene nella filosofia peraltiana all’epilogo
negativo del dolore e della noia come in Schopenhauer, ma ad un epilogo
epifanico che fa dell’arte e nello specifico della poesia, la voce messianica,
oserei dire evangelica, rivelatrice dell’ordine e della bellezza primigenia che
spetta all’artista, nella sua posizione privilegiata, rivelare agli uomini,
affinché si liberino, come sostiene Gentile, dal pensiero pensato (incrostazioni
del passato, forme, leggi, consuetudini) e reinventi il sogno divino di bellezza,
di pace e amore, di armonia degli uomini tra loro e degli umani con le cose. Nuovo
messia, dunque il poeta si serve delle sue parole come di sacrificio lustrale
che purifichi e riveli il nous delle
cose, l’anima buona che armonica e bella fa del creato la proiezione divina. Tale
concezione è possibile definirla romantica per la matrice cristiana ad essa
sottesa e per le finalità etico-pedagogiche che si prefigge di conseguire, ma è
anche avanguardistica, perché in origine si è proposta attraverso un manifesto,
oltreché decadente perché anche G. Peralta come Rimbaud, è un poeta veggente,
visionario, che per mezzo del sogno-intuizione penetra intus per rivelarci l’essenza, la bontà e la bellezza delle
cose. Il poeta quindi seminatore-agricoltore, pietra miliare di comprensione metafisica e
terrena vorrebbe seminare nell’immaginario collettivo e allontanare le persone
dalla terrestrità, chiusa nei labirinti ciechi dell’utile e del potere; ma
potrà mai riuscirci? Il condizionale
sembra d’obbligo di fronte alla cecità che allontana l’uomo dalla fonte
rigeneratrice della poesia. La novità del pensiero ha naturalmente indotto il
poeta–filosofo Peralta alla creazione di un linguaggio post-moderno,
caratterizzato da parole-chiave, senz’altro definibili neologismi, nati da
accorpamenti insoliti di parole comuni o da disgiunzione di sillabe o di
grafemi: s-guardo, est-etica, soaltà, etc..; essi di primo acchito sviano il
lettore, anche colto, verso lo stesso smarrimento in cui si può cadere
leggendo, ad esempio, le poesie di Cepollaro, che ripropone attraverso il caos
verbale il caos, il labirinto dei tempi attuali. L’affidare alle parole vuote
le idee e non ai contenuti è un aspetto del post-moderno, ma le parole di
Peralta non sono mai vuote, anzi la novità della loro coniazione, nasce
dall’esigenza di pregnanza espressiva, dietro la quale si nasconde un lucido
intervento intuitivo e insieme razionale che piega, quasi violentandolo, il
significante al significato, andando oltre lo stesso correlativo oggettivo
proposto da Eliot e poi da Montale, perché qui non trattasi di corrispondenza oggettiva
e razionale di significato, come accade nell’allegoria, ma di coinvolgimento
totale dell’elemento linguistico che viene vivisezionato per proporre
integralmente l’essenza ideologica di cui esso è portatore.