lunedì 11 settembre 2017

La via del sogno nella soaltà di Guglielmo Peralta

di Salvatore Lo Bue

     
      Alle volte, un gesto riassume una vita. E allo stesso modo, una parola riassume una vita. Così è questa soaltà di Peralta: un'attività che si realizza e si compie in un nome, in un neologismo che io   penserei di definire come nome della vita, perché è un nome impegnativo, è un gruppo di sillabe che rappresentano una sfida enorme. Perché sogno e realtà, in principio, sembrerebbero contrari, perché una cosa è il sogno e una cosa è la realtà; quando qualcuno non vede bene la realtà si dice normalmente che sogna e quando qualcuno è immerso nella realtà è lontano dal sogno. Eppure, il sogno, con Francisco de Quevedo, Calderόn de la Barca, Cervantes e Gόngora, diventa un elemento fondante della modernità, con una finalmente nuova accezione, rispetto all'idea di sogno che era stata presente nel medioevo e nell'antichità greca e latina, e cioè di un sogno produttivo, creativo. Ed ecco la via principale per comprendere la spiritualità e il senso del discorso di Peralta. Tutto è in un nome.  Nella Tempesta di Shakespeare, ripetuta da Pirandello nella commedia I giganti della montagna, all'improvviso, qualcuno stabilisce che la tempesta suscitata è una tempesta vera, nonostante non ci sia nessun sussurro, come dice Ariel, delle ossa di coloro che sono naufragati, ma non sono naufragati; che sono in quell'isola prigionieri, ma non sono in quell'isola prigionieri. E come si risolve il mistero? In una magia. Prospero è il mago, ma non il mago come lo intendiamo noi. Egli, come il mago Cotrone del testo pirandelliano, riesce a rendere vere le cose sognate, riesce a sognare ciò che diventerà vero. E da questa prospettiva, alla fine, ci riconosciamo tutti nella nostra vita come in una grande recita, dove le scene cambiano. Quale differenza c'è, allora, tra sogno e realtà; che cosa c'è di vero nel sogno, che cosa c'è di sognante nel vero? Qui siamo in un territorio radicalmente mistico, radicalmente platonico. Ci sono tutti gli elementi della rivelazione presentata nel Fedone e nel Fedro: la bellezza, la visione, lo sguardo, la memoria. E che cosa c'è di più reale delle idee platoniche? Niente, dal punto di vista di Platone, per il quale la ousia, l'essenza, è sostanzialmente questa unità tra sogno e realtà. Noi stessi che cosa siamo, se non questo contrasto tra la mente che sogna e il corpo che non può permetterselo per le sue catene, per i suoi limiti, per le sue tristi sorti. E allora noi abbiamo l'infinito sognare dell'anima e l'infinito perdersi nella realtà del corpo e siamo infelici perché abbiamo diviso l'anima-sogno dalla realtà-corpo. E naturalmente siamo in un mondo in cui, non sognando, il corpo viene o esaltato in tutte le sue follie o distrutto nella sua piena volgarità quando viene a mancare la dimensione del sogno.
      Lo sguardo è il tema di fondo di questa soaltà di Guglielmo Peralta. È un libro molto difficile perché la struttura, incredibilmente e intensamente stilistica, è complessa. Vi è presente una precisa e puntuale capacità di dissolvere le parole nelle loro componenti interne. Così, ad esempio, lo sguardo diventa s-guardo che, in virtù del trattino che separa, isola la «s» dal resto della parola, produce tutta una serie infinita di semanticità nuove. Questa nuova dimensione pensata da Peralta è fortemente e radicalmente mistica, fortemente e intensamente platonica e, al tempo stesso, moderna nella sua struttura originaria, rigorosamente secentesca. A volte, mi ha ricordato certe cantate di Bach perché tutte le scale della soaltà vengono in questo libro analizzate, riprese. Sembrano le pagine uguali, ma sono come le fughe del clavicembalo ben temperato; ci sono fughe una diversa dall'altra. Come sono opposti realtà e sogno, allo stesso modo c'è un luogo, come dice Hegel nella Scienza della logica, in cui l'essere e il nulla coincidono, e questo luogo è il divenire. Ma quale divenire? Non quello storico, perché la storia appartiene a un'altra dimensione, alle cose che sono accadute e non possiamo, perciò, cambiarle. Ma c'è un modo, una dimensione, in cui l'infinita libertà della mente, del pensiero, porta alle cose che potrebbero accadere in un'altra dimensione. Per Hegel, questo luogo, in cui essere e nulla s'incontrano, in cui sono lo stesso, è «il morire». Quanto al luogo, in cui sogno e realtà coincidono, esso è la poesia, è la parola. E la poesia e la parola sono la stessa dimensione della soaltà. La soaltà è l'essenza del poetico; è quello che nel “dvanialoka”, che è il testo fondamentale della poetica orientale indiana, veniva chiamato il «rasa», cioè l'essenza poetica che mette insieme ciò che non è possibile sia messo insieme: la realtà e il sogno. Gli studi di Guglielmo Peralta sono di alta poetica. Tornando alla radice, cioè alla Genesi, dobbiamo renderci conto che tra il Padre e il Figlio c'è la stessa differenza che c'è tra il sogno e la realtà. Perché Dio è il Sogno, il Figlio è la Realtà. Quando si arriva a creare il mondo, non viene detto: Dio creò; quando creò il cielo Dio disse: sia la luce, e la luce fu. Non esiste un creare senza un dire, non esiste un Dio o creatore senza la sua parola, non esiste un padre senza un figlio, ma soprattutto non esiste niente senza l'amore e lo spirito. E quest'amore è ciò che impregna ogni pagina di questo libro di Guglielmo.

giovedì 24 agosto 2017

Consegnato il Premio Salvator Gotta 2017. Una conferenza sulla soaltà di Peralta
Consegnato il Premio Salvator Gotta 2017. Una conferenza sulla soaltà di Peralta


Si è tenuto il 20 aprile presso il Megastore Mondadori di Palermo l’incontro dal titolo “Guglielmo Peralta e la soaltà”; i partecipanti hanno avuto modo di conoscere il poeta e scrittore Guglielmo Peralta, autore del libro “La via dello stupore  nella visione est-etica della soaltà”, pubblicato da Thule edizioni.
Durante l’incontro ha avuto luogo la consegna del Premio alla cultura intitolato a Salvator Gotta, istituito dall’Empire International Club e giunto nel 2017 alla trentottesima edizione.
Ha coordinato la manifestazione Vito Mauro che, dopo aver salutato il pubblico ed introdotto il tema, ha presentato i relatori: Arturo Donati, Salvatore Lo Bue, Antonio Martorana e Tommaso Romano.
Peralta è un poeta, saggista e docente; è autore della silloge poetica “Soaltà” e della silloge “Sognagione” e fondatore della “rivista della Soaltà”, nata nel 2004, ed è autore di romanzi, testi e di recensioni.
Guglielmo Peralta è uno scrittore letto e apprezzato per il suo inconfondibile stile in cui i sogni e la realtà si fondono, associando lo stupore all’emozione, creando degli inusuali scambi emozionali tra lettore e scrittore; ecco l’intima essenza della cosiddetta “soaltà”: sogni e realtà quindi insieme in un’unica immagine dell’anima.
Dalla creazione del concetto di “soaltà” si evince anche la palese vocazione nel coniare neologismi all’interno delle cui strutture si celano immagini del mondo esterno e dell’interiore, con le proprie conformazioni che diventano presto segni immediati di comprensione.
Come ha spiegato Arturo Donati nel suo intervento “Peralta pratica più linguaggi con lo stesso stile ed ha il pregio di essere uno scrittore che merita di essrere riletto, privilegio di pochi artisti; egli apre lo scenario di cosa sia veramente la realtà, percorrendo le vie dello stupore; difendere lo stupore significa difendere la vita stessa”.
La crisi delle parole è espressa dai più grandi poeti ma un uso eccessivo del neologismo è un atto di sfiducia della parola, in sintesi il neologismo è la più sana delle malattie della poesia.
A seguire il prof. Tomaso Romano ha sottolineato come oggi sia necessario fare in modo di onorare e di parlare non soltanto di artisti o autori non più in vita ma sia urgente conoscere, valorizzare e divulgare l’opera di valenti scrittori che giorno dopo giorno sono impegnati nel mondo della letteratura e dell’arte.
E l’opera di Peralta è assolutamente meritevole di attenzione e di una approfondita conoscenza; “ma il sogno e la realtà quante volte sono state coniugate ? Anche Aristotele, autore per eccellenza della realtà, scrive ben due opere sul sogno”, ha ricordato il prof. Romano.
“La vita di relazione è fatta anche di maschere, apparenze, ironia; due vite scisse ma legate, non c’è una diminuzione di unità e di funzione. Virtù e conoscenza tra realtà e sogno,  speranza che fa l’uomo in terra pellegrino dello spirito, lo spirito della bellezza che imprime il senso della vita; ecco la vera essenza dei sogni”. Così termina l’intervento di Romano che chiosa su  una “cosmica bellezza che va praticata oltre che cantata”.
Nell’intervento del prof. Antonio Martorana sono stati accentuati i concetti di opera d’arte, “che è il mondo e la vita stessa”, e di bellezza che, coniugata in “est-etica”, rappresenta la vocazione primaria dello scrittore.
Tutto caratterizzato dal neologismo caratteristico di Peralta: “le nuove parole sono ancelle e angeliche messaggere di un pensiero nuovo” ed assumono una “posizione mediana tra la realtà sensibile e quella intellegibile”.
Il prof. Salvatore Lo Bue approfondisce la distanza, ma anche la simbiosi tra sogno e realtà: essi sembrano in contrasto ma in sintesi il sogno diventa creativo, si riesce a rendere vivo ciò che è stato sognato e si riesce a sognare ciò che si è vissuto nella realtà, ricordando le opere di Calderon de la Barca e di Miguel de Cervantes e i personaggi di Prospero o del Mago Cotrone, rispettivamente presenti nella Tempesta di Shakespeare o nei Giganti della montagna di Pirandello.
Tutti elementi presenti in Fedro e nel Fedone di Platone, ma anche intellegibili in Aristotele nella cui opera si evince che l’essere e il nulla coincidono nel divenire; ecco quindi che il reale e il sogno coincidono nel divenire delle parole, generando quindi poesia.
“Noi non siamo altro che il contrasto tra la mente che sogna e il corpo che non può permetterselo, abbiamo quindi l’anima che sogna e il corpo che vive”, continua Lo Bue parlando dei neologismi come di una infinita serie di semanticità nuove, “una nuova dimensione fortemente e radicalmente mistica e moderna”, concludendo affermando che “tutte le scale della soaltà sono analizzate come le scale del clavicembalo ben temperato di Bach”.
Conclude la conferenza Guglielmo Peralta parlando proprio della “soaltà” che assume la triplice caratteristica di essere eponima, epifanica e trina; “non c’è una verità assoluta, ed un esempio ne sono le teorie Freud e di Jung”; esiste invero una conoscenza ampia e profonda che genera a sua volta la necessità di neologismi in quanto ogni lingua è un’evoluzione della lingua madre.
Durante l’incontro Pippo Romeres ha letto alcune poesie dell’autore e il Maestro Aldo Mausner si è esibito al violino.





domenica 16 luglio 2017

GUGLIELMO PERALTA, LA VIA DELLO STUPORE nella visione est-etica della soaltà




 di Francesca Luzzio
    
  Guglielmo Peralta nel saggio “La via dello stupore” ripropone in modo organico e coerente la sua visione est-etica, quale egli ha già proposto attraverso un manifesto artistico-letterario nella rivista della SOALTÀ, fondata nel 2004 e la sua produzione poetica e saggistica. Peralta, filosofo-poeta, vive come tutta l’umanità in questo mondo, dentro questo mondo malato, ma egli, poeta, sa separarsi da esso e “con sguardo soale” che insieme unisce sogno e realtà, ricondursi dentro il mondo che tale sguardo genera a partire dal sogno: il mondo dello sguardo soale, ossia il mondo della poesia che, catartica, potrebbe rigenerare  il mondo e l’umanità. “Ma la poesia che ammanta di leggiadra veste il creato, non fascia per intero l’umanità che, per buona parte, resta arida e nuda” (pag.47).                                                                                                                 
        Da quanto suddetto, si desume che per Peralta il sogno non è un fenomeno riconducibile alla dimensione onirica, ma è il nous aristotelico, cioè l’intuizione, l’immaginazione creatrice, le idee, i pensieri derivati dallo sguardo rivolto ”dentro” nello spazio dell’interiorità o della soaltà. Questo neologismo, nato dalla crasi di sogno e realtà, indica il mondo quale il poeta lo concepisce nella mente e quale vorrebbe che fosse,  se “la voce dei poeti” non restasse  “inascoltata”. “L’occhio ha una visione difettiva della realtà poiché non coglie il sogno nelle cose, il processo d’incarnazione del sogno” ( pag.12). Se invece si solleva il sipario dietro le palpebre, si apre dentro di noi un "palcoscenico" - la realtà del mondo interiore - su cui si rappresentano le "visioni", le idee che lo sguardo dell’io concepisce e di cui è, perciò, insieme attore e spettatore perché osserva ciò che esso stesso ha intuito. La realtà dunque dovrebbe essere un processo d’incarnazione del sogno, ossia della visione del mondo, che acquista un corpo che,  in quanto contiene in sé la concretizzazione del sogno, diviene soaltà. Il sogno di Dio è divenuto soaltà con la creazione che ha posto in atto la potenza della sua perfezione e della sua bontà. Il poeta, esito più alto del sogno divino, intuisce, guardandosi dentro, tale sogno e ne diventa l’immagine riflessa, attraverso la parola che propone la bellezza e la bontà quali dovrebbero essere nella soaltà, ossia in un mondo intriso della volontà del Creatore. Insomma, come sostiene Schopenhauer, l’artista coglie intuitivamente, attraverso l’arte, il proprio io, le idee di oggettivazione fuori dal principio di ragion sufficiente (ossia spazio, tempo e causalità). Ma l’affermazione della supremazia delle arti non perviene nella filosofia peraltiana all’epilogo negativo del dolore e della noia come in Schopenhauer, ma ad un epilogo epifanico che fa dell’arte e nello specifico della poesia, la voce messianica, oserei dire evangelica, rivelatrice dell’ordine e della bellezza primigenia che spetta all’artista, nella sua posizione privilegiata, rivelare agli uomini, affinché si liberino, come sostiene Gentile, dal pensiero pensato (incrostazioni del passato, forme, leggi, consuetudini) e reinventi il sogno divino di bellezza, di pace e amore, di armonia degli uomini tra loro e degli umani con le cose. Nuovo messia, dunque il poeta si serve delle sue parole come di sacrificio lustrale che purifichi e riveli il nous delle cose, l’anima buona che armonica e bella fa del creato la proiezione divina. Tale concezione è possibile definirla romantica per la matrice cristiana ad essa sottesa e per le finalità etico-pedagogiche che si prefigge di conseguire, ma è anche avanguardistica, perché in origine si è proposta attraverso un manifesto, oltreché decadente perché anche G. Peralta come Rimbaud, è un poeta veggente, visionario, che per mezzo del sogno-intuizione penetra intus per rivelarci l’essenza, la bontà e la bellezza delle cose. Il poeta quindi seminatore-agricoltore,  pietra miliare di comprensione metafisica e terrena vorrebbe seminare nell’immaginario collettivo e allontanare le persone dalla terrestrità, chiusa nei labirinti ciechi dell’utile e del potere; ma potrà mai riuscirci?  Il condizionale sembra d’obbligo di fronte alla cecità che allontana l’uomo dalla fonte rigeneratrice della poesia. La novità del pensiero ha naturalmente indotto il poeta–filosofo Peralta alla creazione di un linguaggio post-moderno, caratterizzato da parole-chiave, senz’altro definibili neologismi, nati da accorpamenti insoliti di parole comuni o da disgiunzione di sillabe o di grafemi: s-guardo, est-etica, soaltà, etc..; essi di primo acchito sviano il lettore, anche colto, verso lo stesso smarrimento in cui si può cadere leggendo, ad esempio, le poesie di Cepollaro, che ripropone attraverso il caos verbale il caos, il labirinto dei tempi attuali. L’affidare alle parole vuote le idee e non ai contenuti è un aspetto del post-moderno, ma le parole di Peralta non sono mai vuote, anzi la novità della loro coniazione, nasce dall’esigenza di pregnanza espressiva, dietro la quale si nasconde un lucido intervento intuitivo e insieme razionale che piega, quasi violentandolo, il significante al significato, andando oltre lo stesso correlativo oggettivo proposto da Eliot e poi da Montale, perché qui non trattasi di corrispondenza oggettiva e razionale di significato, come accade nell’allegoria, ma di coinvolgimento totale dell’elemento linguistico che viene vivisezionato per proporre integralmente l’essenza ideologica di cui esso è portatore.

mercoledì 31 maggio 2017

CONSIDERAZIONI SU “LA VIA DELLO STUPORE” E SULLA VISIONE SOALE DI GUGLIELMO PERALTA




 di Rossella Cerniglia
  

 La via dello stupore di Guglielmo Peralta è una visione maturata in lunghi anni di riflessioni e ascolto di sé e del proprio mondo che non attribuisce a se stessa un carattere filosofico, in senso stretto, ma vuole porsi come anelito e speranza di una rigenerazione che investa l'uomo, l'umanità intera, a partire dalla poesia. La poesia in quanto promotrice di bellezza avrebbe, dunque, una funzione catartica e purificatrice dell'intero mondo, dell'intera realtà.
   La costruzione che si eleva su tale presupposto è giustamente articolata e poggia su una peculiare rete di significanti e significati che si intersecano e si rincorrono proliferando su se stessi. Il percorso che viene a delinearsi è perciò una concrezione di sensi che motiva l'agglutinarsi e il mescolarsi della molteplicità dei termini in nuovi lessemi e in neologismi il cui senso converge nell'unicità di questa visione.
   Da sempre è da dire che l'uomo - e in maniera più radicale e struggente il poeta - ha avvertito il richiamo a un mondo ideale di perfezione di contro al limite della realtà terrestre e umana. Molti esempi potrebbero addursi a sostegno del significato e del valore intrinseco, sostanziale, di una simile ricerca e di una simile visione.
   È indubbio che l'uomo aspirerebbe a riappropriarsi della divinità che gli manca, e della quale si ritiene deprivato. Sartre, ad esempio, a un certo punto della sua riflessione, sostiene che l'uomo progetta se stesso come dio, anche se tale progetto è destinato - inesorabilmente - allo scacco,  e dunque egli finisce con l'essere un “dio mancato”. In Nietzsche l'arte, intesa in senso ampio come forza creatrice, diviene il modello stesso della volontà di potenza dell'Übermensch, dell'oltreuomo.  Il che è l'analogo del pensiero di Sartre, considerando che l'Übermensch e la sua volontà di potenza si costituiscono a partire dalla negazione nicciana di ogni realtà sovrumana e di ogni metafisica, ma, nello stesso tempo, però, si pongono come necessari per sopperire proprio a quella stessa mancanza, difficilmente sostenibile per l'uomo. Infatti, non possiamo ancora dirci fuori dalla metafisica - che il filosofo si era illuso di poter cancellare - né con la teoria dell'eterno ritorno, né con quella dell' Übermensch, o della Volontà di potenza. Siamo, al contrario, ancora una volta di fronte a una dimensione, non certo reale, ma ideale. Verso, cioè, una ideale perfezione che, ancora una volta, sconfina nella metafisica. Heidegger, infatti, dopo il lungo appassionato studio dedicato al pensiero nicciano, ebbe a definire il filosofo “il più sfrenato dei platonici”, proprio perché non si era liberato veramente della metafisica, ma l'aveva riproposta sotto altra forma.  
   In modo del tutto peculiare, anche i Romantici avvertono questo profondo senso di inequivalenza tra la realtà del mondo - finito, limitato, imperfetto - nel quale l'uomo si trova a vivere, e un mondo altro dove lo spirito aspira a dispiegarsi con anelito vasto, insopprimibile, orientando a ciò che trascende la finitudine, la realtà contingente di ogni divenire, verso le vette dell'ultramondano, dell'assoluto e dell'eterno.
   Siamo di fronte, pertanto, ad uno stesso anelito, ad una stessa tensione, ma espressa con modalità e terminologie differenti, coniugata in forme personali che abbracciano l'intera visione del mondo e dell'uomo, la sua storia, il suo vissuto. Alberga tanto nell'animo di Sartre che lo vive come disillusione, come scadimento di un progetto che depriva di senso e nullifica la realtà nell'insignificanza, quanto in quello di Nietzsche quando deriva il senso del Bello - l'arte -dall'intimo rapporto che lega la forza creatrice, nel suo Eterno ritorno, all'uomo nuovo, all' Übermensch, che liberato dai retaggi e dalle pastoie di una cultura e di una morale ormai tramontata, rappresentata nel concetto della morte di Dio, in lui rinasce nella forma dello spirito dionisiaco e come Volontà di potenza. 
   Nei Romantici era aspirazione vaga a qualcosa di non ben determinato, sehnsucht, sentimento  di  una sfuggente imprendibile e dolorosa mancanza, e anelito volto a colmare questo vuoto, questo spaesamento dell'erranza in terra straniera, in un mondo, cioè, che non è il proprio, che essi percepiscono non appartenergli. Anelito e nostalgia, dunque, che tormentano un animo insoddisfatto, inquieto: effetto di questa inequivalenza tra la percezione di un sé limitato in una realtà limitata, e il desiderio di sconfinamento, ma ancor meglio, di riappropriazione di un mondo più autentico che il poeta  - e l'uomo in generale - sente come propria patria e proprio destino. Per cui, essere viaggiatori su questa terra, essere pellegrini del mondo, è essere privi della realtà lontana che è la Patria  che intimamente ci appartiene, vale a dire, il nostro stesso essere, il nostro essere più proprio che con voce misteriosa e insistente ci chiama ed invita.
     A questo sembra additare, appunto, la visione soale di Guglielmo Peralta. L'arte, e il principio che la regge e condensa, e che a sé tiene avvinto ogni bene, rappresenta, pertanto, l'apertura dell'umano alla Jerusalem celeste, vagheggiata dai mistici medievali, è il ritorno al Padre nella ricostituzione dell'Unità infranta con l'origine cronotopica della terrestrità in cui irrompe la necessità del limite che frammenta e contrappone in sé l'Essere originario.
   Questo richiamo inesorabile, insopprimibile, alla perfezione è dunque dell'uomo, appartiene ad esso, è una prerogativa solamente umana. È ancora quello per cui Platone apre la visione dualistica della realtà, dividendo il mondo umano: da una parte la terrestrità, dove ogni cosa diviene e la conoscenza è imperfetta, dall'altra l'abbagliante visione del mondo iperuranio, ideale e immutabile sede di ogni perfezione. E in verità, questo pensiero ha segnato la cultura occidentale sin dalle sue origini, sin da quando - andando oltre Platone e più indietro nel tempo - Parmenide, per la prima volta, parlò dell'Essere compiuto ed immutabile, e della rotondità di questa visione. E l'attributo della rotondità ritorna spesso a connotare la Visione soale di Peralta, a indicare l'idea di compiutezza e perfezione che vi sono intrinsecamente connesse.
  È ineludibile il fatto che la Poesia sia, sostanzialmente, una ricerca di verità, è anzi la più alta ricerca della Verità in quanto ciò che ricerca è l'essenza più vera della realtà, che Peralta, come abbiamo visto,  individua nella Bellezza.
   Trovo che il pensiero di Heidegger, al riguardo, sia illuminante.  Nel saggio Hölderlin e l'essenza della poesia, pubblicato nel 1937, egli formula una nuova concezione dell'essere connessa ad una precedente impostazione del problema della verità: la concezione dell'essere come Evento cui si collega il ruolo ontologico del linguaggio. 
   Per Heidegger, infatti, “ciò che prima di tutto è, è l'essere”. E la parola Evento, viene a designare nel suo sistema filosofico, l'originaria reciproca appartenenza dell'uomo e dell'essere: l'uomo infatti non è senza l'essere e l'essere non si dà senza l'uomo. Solo l'uomo - l'esserci, secondo la definizione heideggeriana - ha la prerogativa di porsi il problema dell'essere e del suo senso, a differenza dei semplici enti intramondani. “Nella dimora dell'essere abita l'uomo - dice Heidegger -  e i pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è portare a compimento la manifestatività dell'essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono.”
      Ma mi sembra utile, qui, riprendere anche il concetto dell'archelingua heideggeriana, la Dichtung. In questa lingua archetipica, originaria, la cui postulazione appartiene al pensiero più maturo del filosofo tedesco, Pensiero e Canto, cioè filosofia e poesia, coabitano, sono intimamente, inscindibilmente, connesse, hanno tra loro un rapporto dialogante che si esplica nel linguaggio. In essa i due elementi vivono non scissi e solo a posteriori è possibile considerali separatamente. Per loro tramite si realizza quell'aprimento dell'essere all'uomo di cui parla il filosofo tedesco, cioè il manifestarsi dell'essere a quell'ente che si connota come esserci - in quanto gettato/immerso nel mondo in modo costitutivo e radicale. Tale Aprimento costituisce  appunto l'evento di cui dicevamo prima.
   Ma un tale aprimento - lo svelarsi dell'essere - non si dà mai in una luce costante, non è mai totale. Esso è, infatti, analogo a una istantanea illuminazione che subito torna a nascondere ciò che ha mostrato perché il mostrarsi della verità, quello che gli antichi greci chiamavano aletheia, si dà in un continuo nascondersi e rivelarsi che non ha fine. Nella Poesia è in opera l'Evento della verità. In essa, la verità dell'essere opera attraverso il linguaggio per il suo disvelamento. E tale disvelamento, secondo Heidegger, non dipende neanche dalla volontà dell'uomo, poiché non è l'uomo a parlare, ma il linguaggio stesso - e per suo tramite l'essere - che parla attraverso l'uomo che, in questo senso,  possiamo dire che è abitato dal linguaggio, anzi è parlato da esso.            
    Tuttavia, nel suo stare a fondamento di pensiero e canto, che si esplicano nel linguaggio, la Dichtung li trascende entrambi poiché ogni pensiero e ogni canto non potranno mai ricomprenderla e riaffermarla interamente, così come non interamente potranno appropriarsi della verità dell'essere che essa disvela e adombra. La verità rimane, pertanto, nel pensiero/canto e nel linguaggio che li esprime, in un Nascondimento che mostra o in un Mostrarsi che nasconde. Ed è qui l'essenza del linguaggio dell'uomo e della realtà che esso esprime, e pertanto dell'esistenza intera: essa vive nell'ombra di questo Nascondimento che accenna a se stesso senza mai interamente svelarsi nella sua Luce.
   Nella costruzione peraltiana, Bene e Bellezza, i perenni attributi del divino, sono unica realtà, e perciò Verità dell'Essere. Ma lo spezzettamento dell'Unità originaria che è lo Spirito (Energheia), diviene realtà frantumata dentro e fuori di noi, diviene per l'uomo terrestrità, dove la realtà è costituita di frammenti, e gli uomini, anch'essi frammenti di un Tutto, sono, a loro volta, in se stessi spezzettati, divisi e con parti in contrasto tra loro. Questo è l'effetto della caduta, dello slittamento che produce gli esseri reali, contingenti e unici (a richiamare l'Unità dello Spirito Universale).
   Peralta allude, pertanto, in questo suo saggio ad una Theosis, ad un processo di divinizzazione dell'uomo che impara a ritrovare se stesso, a pervenire alle sue origini, allo stato di assolutezza e purezza iniziale in cui era unione col divino. E tale costruzione è, pertanto affidata a quell'anelito alla trascendenza, all'unità e alla perfezione che da sempre è il tendere dell'uomo. La prospettiva di questa visione, come ha ben individuato Giannino Balbis nella prefazione al testo, è quella divina (dalla quale siamo però decisamente lontani!).  “Trasumanar significar per verba/ non si porìa; però l'essemplo basti/ a cui esperienza grazia serba” così detta Dante nel I canto del Paradiso, per dire, sostanzialmente, del limite umano di fronte alla indicibile, inapprodabile, Verità di Dio.
    Ma questo non esclude il necessario tendere a questa ardita visione, per quell'insopprimibile anelito di cui dicevo prima, per quel radicale richiamo che è esigenza primaria dello spirito umano. In questa radicale tensione, che è il divenire stesso dello Spirito e dell'intera realtà, si consuma, infatti, la vicenda umana, il suo incedere verso nuove forme di conoscenza e di sapienza.
  Anzi, è proprio tale tensione che, nella sua perenne presenza, nella sua insopprimibile costanza - declinata nelle più varie forme-  ci fa pensare di essere ricompresi in un piano teleologico grandioso che inesorabilmente guidi il nostro spirito a quella Patria additata e lontana.

lunedì 29 maggio 2017

LA SOALTÀ DI GUGLIELMO PERALTA, di Franca Alaimo






La via dello stupore di Guglielmo Peralta è un vero e proprio trattato articolato in 22 brevi capitoli a cui vanno aggiunti un glossario dei neologismi più usati dall’autore, e un’interessante riflessione conclusiva: Perché il tempo della povertà nonostante i poeti. 
In ogni capitolo l’autore sviluppa un aspetto di quel sistema etico-estetico-filosofico identificabile con il neologismo “Soaltà”, le cui radici vanno ricercate fin dalle sue prime pubblicazioni. Una così lunga fedeltà testimonia la coerenza di un pensiero che, dopo essersi confrontato con le più importanti correnti filosofiche, si è, nel corso del tempo, sviluppato ed arricchito fino a costruire una teoria organica, caratterizzata da riflessioni del tutto originali e dall’invenzione di una serie di neologismi (Peralta tende, di fatto, ad una lingua propria) che vanno letti anche quali densissime figurazioni poetiche.
Infatti, quando il filosofo è anche un poeta, come nel caso di Peralta, alla sistemazione razionale del pensiero si sovrappone la tendenza ad includere elementi e figurazioni dettati da quell’intelligenza emotiva e fantastica che, nella filosofia greca, diede origine a miti e favole, come quelli a cui ricorre il più immaginifico dei filosofi greci: Platone.  
Il trattato di Peralta attesta anche una forte esigenza di costruire nessi di significato fra i molti neologismi del suo vocabolario, con l’intento di ridurre distanze e trasformare la lingua in una tramatura fluida, che attesti l’inscindibilità dell’etica dall’estetica, della scienza dalla poesia, della ragione dall’emozione secondo una consequenzialità spesso imprevedibile, ma del tutto obbediente ad un criterio personale d’inclusività, a fronte dei compartimenti stagni a cui da tempo si è avviato il sapere umano.
Fatta questa premessa, è difficile dire più di quanto si sia già detto a proposito della Soaltà di Peralta, innanzitutto perché l’autore, che è il primo e più sapiente commentatore di se stesso, fornisce al lettore tutti gli strumenti necessari, compreso il glossario, per facilitargliene la comprensione; e poi perché già in molti si sono occupati di essa, fra i quali Barberi Squarotti (recentemente scomparso), la Monroy, e ancora, Scurria, Sasso, Zinna, e, recentemente, Donati, Lo Bue, Tommaso Romano, e, infine, Balbis, che nella prefazione ha citato anche me.
Ebbi, infatti, a scrivere una introduzione alla breve raccolta di poesie dell’amico Peralta: Sognagione, edita dalla casa editrice palermitana ‘The Lamp’. Mi scuserò, allora, se citerò qua e là me stessa, ma credo di non sapere trovare parole migliori per veicolare certe idee maturate a proposito della soaltà peraltiana e, in particolare, della sua terminologia (che ne è uno degli aspetti più intriganti). Volere spiegare quest’ultima, come scrivo in quella prefazione, sulla base della scienza dell’etimologia, sarebbe inutile e fuorviante, poiché essa si basa, invece, “su una rete di relazioni analogiche, di sovrapposizioni concettuali, di accorpamenti di parole o di scissioni al loro interno, e, perfino, su una sorta di procedimento sillogistico operato sui significanti, da cui germinano nuovi e sorprendenti significati”.
Nel glossario inserito ne La via dello stupore, l’autore, inoltre, separa i neologismi, cioè le parole nuove, da lui stesso inventate, e le parole gravide, quelle che, pur rimanendo inalterate, assumono altri significati; come, per fare un esempio, ‘bisogno’ che, ad opera di un trattino interno, diventa ‘bi-sogno’, indicando (cito Peralta) «l’origine dei sogni positivi, cioè delle idee che generano, a loro volta, le cose che servono alla vita dell’uomo, quelle che ne soddisfano le esigenze epifaniche, i bisogni indispensabili, necessari». Mentre leggevo questo incredibile glossario, mi è sembrato di potere assegnare le parole a tre aree semantiche: la terra, il cielo, l’interiorità; infatti, molte hanno a che fare con l’azione del coltivare, seminare e raccogliere frutti, tant’è che nel mezzo di questo recuperato eden svetta, dentro lo splendore della lux, l'albero soale; altre si ispirano alla terminologia astronomica come ‘astroparole’, ‘cielificazione’, ‘cielogramma’, ‘cosmosomatica’; e, infine, tutte trovano accoglienza nello spazio interiore, detto ‘antropografico’, perché  esso è quello «della creatività, dove vengono osservati e coltivati i fatti o fenomeni creativi, i quali costituiscono il sentire dell’uomo in relazione al suo habitat spirituale».
Sempre a proposito dei neologismi, nel corso della recentissima presentazione tenutasi nel mese d’aprile 2017 presso i locali della libreria Mondadori, ho annotato questa illuminante dichiarazione di Peralta: “sommare due parole equivale a crearne una terza attraverso un legame speciale d’amore”. A proposito sempre dei neologismi Antonio Martorana scrive che essi “rendono specularmente il mundus imaginalis dell’Autore, che è come dire la sua psiche, stando alla massima fissata da Jung: l’immagine è psiche”.
Sarebbe ancora più errato parlare di sperimentalismo, poiché la coniazione di parole e l’ingravidazione di senso di altre testimoniano una necessità di rinominazione del mondo allo scopo di purificarlo attraverso la novità dei suoni “rotondi”, come scrive Peralta.
Insomma, la terminologia peraltiana non è una “macchinosa costruzione”, come qualcuno potrebbe pensare: essa, infatti, (e continuo a citarmi) coincide con una “accensione spirituale ed una vibratilità percettiva che volta per volta investono l’atto creativo” avente come valori fondanti quelli più alti dello Spirito umano; “altrimenti non si spiegherebbe la qualità di un lessico che attinge ampiamente a quello evangelico”, instaurando una sorta di parallelismo “fra la funzione messianica del Cristo e quella del Poeta”, entrambi votati alla purificazione “della tragedia del mondo”.
Non per nulla le epigrafi scelte dall’autore sono rispettivamente di un poeta, Hölderlin, e di un papa, Karol Wojtiyla (anche lui scrittore di versi ed autore di una lettera indirizzata agli artisti): il primo esalta la missione del poeta come colui che deve cercare “quanto vi è di più alto e perfetto”, il secondo ricorda ad ogni uomo la necessità di approdare alla visione attraverso l’interpretazione dei segni e a “ciò che gravita dentro/e che matura come frutto nella parola”.
Dunque, Peralta sacralizza il poeta e la poesia, affidando loro la palingenesi universale, nel convincimento che sarà la Bellezza a salvare il mondo, così come affermò Dostoevskji. Non per nulla Salvatore Lo Bue ha parlato di misticismo peraltiano in nome di un sogno verbale pantocratore.
Per tornare alla Soaltà, all’interno dei capitoli che compongono La via dello stupore, si possono leggere varie definizioni della stessa, ma la più interessante a me sembra essere questa: «La soaltà che nella luce estiva si palesa, è la visione che accoglie il mondo nella sua unione di sogno e realtà correggendo la conoscenza difettiva che abbiamo di essa a causa dell’occhio».
Questo difetto dell’occhio sembra, infatti, essere il male più diffuso nella società contemporanea: nel capitolo conclusivo de La via dello stupore, Peralta definisce il mondo in cui viviamo  «assurdo e irrazionale, sempre più povero perché privo di questi sogni reali, ossia dei valori e delle virtù trasformati in sogni impossibili per la loro assenza» e l’umanità «arida e nuda», svilita dall’odio, dal crimine e dall’egoismo.
Eppure Peralta crede fermamente che il mondo potrà cambiare grazie all’accoglimento da parte di tutti gli uomini della Bellezza, ‘oggettiva e aperta alla vista di tutti’, anche se ‘non tutti ne avvertono l’essenzialità’. Ancora una volta vengono accostate la figura del Poeta e quella di Cristo: «Non è forse – si chiede Peralta ‒ il Poeta l’emulo di Cristo?» Come Cristo, infatti, somma perfezione, non fu compreso dagli uomini e crocifisso, allo stesso modo, nel mondo contemporaneo così povero, «la Poesia ha il suo calvario e la sua croce e gli uomini sono la sua crocifissione e il suo sepolcro».
La conclusione del capitolo ha toni commossi: si ha l’impressione che Peralta assuma il piglio solenne e ispirato di un profeta che si appella a tutti gli uomini, affinché imparino a riscoprire il valore della Bellezza, dell’Anima, della Poesia: questo ‘universo di carta’ ‒ ed è una sua definizione molto bella ‒ capace di ‘rendere il mondo più confortevole’.
Non credo che La Soaltà di Peralta possa essere facilmente condivisa, intanto per questa tracimazione di idealità e sogno a cui l’uomo contemporaneo è poco avvezzo, e poi per l’arditezza del linguaggio, che viene piegato a dire altro, investito anch’esso da una visionarietà etica non solo dello sguardo, ma anche dell’udito.
Certo è che si tratta di un edificio di concetti e punti di vista assolutamente singolari, sebbene tragga spunto, come ricorda Giannino Balbis che ha firmato la presentazione de La via dello stupore, dalla mistica cristiana, da Leopardi, Novalis, Pascoli, Dostoevskji, Todorov, e, ancora, Dante, Tommaso e tanti altri; a dimostrazione che Peralta non è un sognatore d’azzardo, ma un uomo di cultura che ha tratto un suo frutto particolare dalla lettura di tanti grandi scrittori e pensatori del passato e del presente.
Di primo acchito questa complessa visione di Peralta potrebbe essere giudicata non attuale in rapporto, specie se messa in rapporto con la ‘liquidità’ di cui parla Bauman per definire la realtà in cui viviamo; eppure, come osserva il già citato prefatore Balbis, la soaltà peraltiana, se accolta, porrebbe rimedio al carattere di provvisorietà che ha ormai assunto il valore estetico e porrebbe rimedio «a quel che lamenta Eco a riguardo del ruolo educativo un tempo esercitato da genitori e insegnanti e oggi tragicamente delegato ai mass media e all’industria culturale (…) la soaltà ha il crisma della palingenesi: è teoria estetica, ma anche filosofia di vita, proposta di un nuovo e salvifico galateo degli occhi, della mente, del cuore, nuova mirabile visione del mondo».
Mi piace concludere questo intervento con un pensiero del poeta cretese Nikos Kazantzakis, che mi sembra molto prossimo allo sguardo e alla terminologia peraltiani. Egli dice così: “credendo con passione in qualcosa che ancora non esiste, lo creiamo; l’inesistente è ciò che non desideriamo abbastanza, ciò che non abbiamo irrigato a sufficienza con il nostro sangue, così che possa prendere forza e varcare la soglia oscura dell’inesistenza”.