La
via dello stupore di
Guglielmo Peralta è un vero e proprio trattato articolato in 22 brevi capitoli
a cui vanno aggiunti un glossario dei neologismi più usati dall’autore, e
un’interessante riflessione conclusiva: Perché
il tempo della povertà nonostante i poeti.
In ogni capitolo l’autore sviluppa un
aspetto di quel sistema etico-estetico-filosofico identificabile con il
neologismo “Soaltà”, le cui radici vanno ricercate fin dalle sue prime
pubblicazioni. Una così lunga fedeltà testimonia la coerenza di un pensiero
che, dopo essersi confrontato con le più importanti correnti filosofiche, si è, nel corso del tempo, sviluppato ed arricchito fino a costruire una teoria organica,
caratterizzata da riflessioni del tutto originali e dall’invenzione di una
serie di neologismi (Peralta tende, di fatto, ad una lingua propria) che vanno
letti anche quali densissime figurazioni poetiche.
Infatti, quando il filosofo è anche un
poeta, come nel caso di Peralta, alla sistemazione razionale del pensiero si
sovrappone la tendenza ad includere elementi e figurazioni dettati da
quell’intelligenza emotiva e fantastica che, nella filosofia greca, diede
origine a miti e favole, come quelli a cui ricorre il più immaginifico dei
filosofi greci: Platone.
Il trattato di Peralta attesta anche una
forte esigenza di costruire nessi di significato fra i molti neologismi del suo
vocabolario, con l’intento di ridurre distanze e trasformare la lingua in una
tramatura fluida, che attesti l’inscindibilità dell’etica dall’estetica, della
scienza dalla poesia, della ragione dall’emozione secondo una consequenzialità
spesso imprevedibile, ma del tutto obbediente ad un criterio personale
d’inclusività, a fronte dei compartimenti stagni a cui da tempo si è avviato il
sapere umano.
Fatta questa premessa, è difficile dire
più di quanto si sia già detto a proposito della Soaltà di Peralta, innanzitutto perché l’autore, che è il primo e
più sapiente commentatore di se stesso, fornisce al lettore tutti gli strumenti
necessari, compreso il glossario, per facilitargliene la comprensione; e poi
perché già in molti si sono occupati di essa, fra i quali Barberi Squarotti
(recentemente scomparso), la Monroy, e ancora, Scurria, Sasso, Zinna, e,
recentemente, Donati, Lo Bue, Tommaso Romano, e, infine, Balbis, che nella
prefazione ha citato anche me.
Ebbi, infatti, a scrivere una
introduzione alla breve raccolta di poesie dell’amico Peralta: Sognagione, edita dalla casa editrice
palermitana ‘The Lamp’. Mi scuserò, allora, se citerò qua e là me stessa, ma
credo di non sapere trovare parole migliori per veicolare certe idee maturate a
proposito della soaltà peraltiana e, in particolare, della sua terminologia
(che ne è uno degli aspetti più intriganti). Volere spiegare quest’ultima, come
scrivo in quella prefazione, sulla base della scienza dell’etimologia, sarebbe
inutile e fuorviante, poiché essa si basa, invece, “su una rete di relazioni
analogiche, di sovrapposizioni concettuali, di accorpamenti di parole o di
scissioni al loro interno, e, perfino, su una sorta di procedimento
sillogistico operato sui significanti, da cui germinano nuovi e sorprendenti
significati”.
Nel glossario inserito ne La via dello stupore, l’autore, inoltre,
separa i neologismi, cioè le parole nuove, da lui stesso inventate, e le parole
gravide, quelle che, pur rimanendo inalterate, assumono altri significati;
come, per fare un esempio, ‘bisogno’ che, ad opera di un trattino interno,
diventa ‘bi-sogno’, indicando (cito Peralta) «l’origine dei sogni positivi,
cioè delle idee che generano, a loro volta, le cose che servono alla vita dell’uomo, quelle che ne soddisfano le esigenze
epifaniche, i bisogni indispensabili, necessari». Mentre leggevo questo
incredibile glossario, mi è sembrato di potere assegnare le parole a tre aree
semantiche: la terra, il cielo, l’interiorità; infatti, molte hanno a che fare
con l’azione del coltivare, seminare e raccogliere frutti, tant’è che nel mezzo
di questo recuperato eden svetta, dentro lo splendore della lux, l'albero soale; altre si ispirano
alla terminologia astronomica come ‘astroparole’, ‘cielificazione’,
‘cielogramma’, ‘cosmosomatica’; e, infine, tutte trovano accoglienza nello
spazio interiore, detto ‘antropografico’, perché esso è quello «della creatività, dove vengono
osservati e coltivati i fatti o fenomeni creativi, i quali costituiscono
il sentire dell’uomo in relazione al
suo habitat spirituale».
Sempre a proposito dei neologismi, nel
corso della recentissima presentazione tenutasi nel mese d’aprile 2017 presso i
locali della libreria Mondadori, ho annotato questa illuminante dichiarazione
di Peralta: “sommare due parole equivale a crearne una terza attraverso un
legame speciale d’amore”. A proposito sempre dei neologismi Antonio Martorana
scrive che essi “rendono specularmente il mundus
imaginalis dell’Autore, che è come dire la sua psiche, stando alla massima
fissata da Jung: l’immagine è psiche”.
Sarebbe ancora più errato parlare di
sperimentalismo, poiché la coniazione di parole e l’ingravidazione di senso di
altre testimoniano una necessità di rinominazione del mondo allo scopo di
purificarlo attraverso la novità dei suoni “rotondi”, come scrive Peralta.
Insomma, la terminologia peraltiana non
è una “macchinosa costruzione”, come qualcuno potrebbe pensare: essa, infatti,
(e continuo a citarmi) coincide con una “accensione spirituale ed una
vibratilità percettiva che volta per volta investono l’atto creativo” avente
come valori fondanti quelli più alti dello Spirito umano; “altrimenti non si
spiegherebbe la qualità di un lessico che attinge ampiamente a quello
evangelico”, instaurando una sorta di parallelismo “fra la funzione messianica
del Cristo e quella del Poeta”, entrambi votati alla purificazione “della
tragedia del mondo”.
Non per nulla le epigrafi scelte
dall’autore sono rispettivamente di un poeta, Hölderlin, e di un papa, Karol
Wojtiyla (anche lui scrittore di versi ed autore di una lettera indirizzata
agli artisti): il primo esalta la missione del poeta come colui che deve
cercare “quanto vi è di più alto e perfetto”, il secondo ricorda ad ogni uomo
la necessità di approdare alla visione attraverso l’interpretazione dei segni e
a “ciò che gravita dentro/e che matura come frutto nella parola”.
Dunque, Peralta sacralizza il poeta e la
poesia, affidando loro la palingenesi universale, nel convincimento che sarà la
Bellezza a salvare il mondo, così come affermò Dostoevskji. Non per nulla
Salvatore Lo Bue ha parlato di misticismo peraltiano in nome di un sogno
verbale pantocratore.
Per tornare alla Soaltà, all’interno dei
capitoli che compongono La via dello
stupore, si possono leggere varie definizioni della stessa, ma la più
interessante a me sembra essere questa: «La soaltà che nella luce estiva si palesa, è la visione che
accoglie il mondo nella sua unione di sogno e realtà correggendo la conoscenza
difettiva che abbiamo di essa a causa dell’occhio».
Questo difetto dell’occhio sembra,
infatti, essere il male più diffuso nella società contemporanea: nel capitolo
conclusivo de La via dello stupore,
Peralta definisce il mondo in cui viviamo
«assurdo e irrazionale, sempre più povero perché privo di questi sogni reali, ossia dei valori e delle virtù
trasformati in sogni impossibili per
la loro assenza» e l’umanità «arida e nuda», svilita dall’odio, dal crimine e
dall’egoismo.
Eppure Peralta crede fermamente che il
mondo potrà cambiare grazie all’accoglimento da parte di tutti gli uomini della
Bellezza, ‘oggettiva e aperta alla vista di tutti’, anche se ‘non tutti ne
avvertono l’essenzialità’. Ancora una volta vengono accostate la figura del
Poeta e quella di Cristo: «Non è forse – si chiede Peralta ‒ il Poeta l’emulo
di Cristo?» Come Cristo, infatti, somma perfezione, non fu compreso dagli
uomini e crocifisso, allo stesso modo, nel mondo contemporaneo così povero, «la
Poesia ha il suo calvario e la sua croce e gli uomini sono la sua crocifissione
e il suo sepolcro».
La conclusione del capitolo ha toni
commossi: si ha l’impressione che Peralta assuma il piglio solenne e ispirato
di un profeta che si appella a tutti gli uomini, affinché imparino a riscoprire
il valore della Bellezza, dell’Anima, della Poesia: questo ‘universo di carta’
‒ ed è una sua definizione molto bella ‒ capace di ‘rendere il mondo più
confortevole’.
Non credo che La Soaltà di Peralta possa essere facilmente condivisa, intanto per
questa tracimazione di idealità e sogno a cui l’uomo contemporaneo è poco
avvezzo, e poi per l’arditezza del linguaggio, che viene piegato a dire altro,
investito anch’esso da una visionarietà etica non solo dello sguardo, ma anche
dell’udito.
Certo è che si tratta di un edificio di
concetti e punti di vista assolutamente singolari, sebbene tragga spunto, come
ricorda Giannino Balbis che ha firmato la presentazione de La via dello stupore, dalla mistica cristiana, da Leopardi,
Novalis, Pascoli, Dostoevskji, Todorov, e, ancora, Dante, Tommaso e tanti
altri; a dimostrazione che Peralta non è un sognatore d’azzardo, ma un uomo di
cultura che ha tratto un suo frutto particolare dalla lettura di tanti grandi
scrittori e pensatori del passato e del presente.
Di primo acchito questa complessa
visione di Peralta potrebbe essere giudicata non attuale in rapporto, specie se
messa in rapporto con la ‘liquidità’ di cui parla Bauman per definire la realtà
in cui viviamo; eppure, come osserva il già citato prefatore Balbis, la soaltà
peraltiana, se accolta, porrebbe rimedio al carattere di provvisorietà che ha
ormai assunto il valore estetico e porrebbe rimedio «a quel che lamenta Eco a
riguardo del ruolo educativo un tempo esercitato da genitori e insegnanti e
oggi tragicamente delegato ai mass media e all’industria culturale (…) la
soaltà ha il crisma della palingenesi: è teoria estetica, ma anche filosofia di
vita, proposta di un nuovo e salvifico galateo degli occhi, della mente, del
cuore, nuova mirabile visione del
mondo».
Mi piace concludere questo intervento
con un pensiero del poeta cretese Nikos Kazantzakis, che mi sembra molto
prossimo allo sguardo e alla terminologia peraltiani. Egli dice così: “credendo
con passione in qualcosa che ancora non esiste, lo creiamo; l’inesistente è ciò
che non desideriamo abbastanza, ciò che non abbiamo irrigato a sufficienza con
il nostro sangue, così che possa prendere forza e varcare la soglia oscura
dell’inesistenza”.
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