giovedì 12 maggio 2022

IL TEATRO DELLA SOALTÀ

 

 

Una più generosa capacità di guardare

di Gianfranco Perriera

 

 

La figlia di Indra, ne Il sogno di Strindberg – il dramma prediletto e insieme la creatura del suo maggior dolore – scendeva giù in terra, tra i mortali, “la stirpe scontenta e ingrata”, per conoscerne le pene e strapparli al buio in cui scivolavano a causa del loro pesantore materico, per scrostare l’anima del mondo dal fango in cui finiva per impelagarsi. Strano fenomeno quello dell’esistenza terrena: multiforme, effimera e mutevole è la vita, amata ed esecrata, essa trova il suo opposto, per Strindberg, nel desiderio di ascesi. Per quest’ultimo la vita è un magma brulicante, da cui liberarsi innalzandosi alle vette celesti, eppure ha tante attrattive e lusinghe, non ultime quelle dell’amore, passione che avvince ed eleva. Un amore troppo presto perduto, infatti – per la giovane attrice Harriet Bosse, sposata nel 1901 e che lo abbandonò, incinta, dopo nemmeno due mesi – era la sofferta ragione del dramma del drammaturgo svedese.

Dramma del sogno era il titolo che Strindberg aveva scelto. Per non lasciarsi travolgere dalla mancanza e dall’abbandono lo aveva composto, dando vita ad un’opera onirica in cui, come scrive nella nota premessa al testo, “tutto può avvenire, tutto è possibile e probabile […] su una base minima di realtà, l’immaginazione disegna motivi nuovi”. Nel luogo dove si sublima il soffrire e dove si apre la via a ogni possibile, la figlia di Indra non può che incrociare un poeta: non è infatti il poeta insieme il cantore e il creatore di mondi? Non è la sua voce, insieme, la pietà, la malinconia e la gioia per quanto di più prezioso (l’amore, il bene, il bello, il vero) sfugge comunque alla presa dei mortali? Non è il poeta un fine ricamatore di sogni che sanno leggere più addentro nel cuore del reale?

Sul finire del dramma la figlia di Indra dialoga, dunque, con il poeta e della poesia rivela la fragile essenza: “[la poesia] non è la realtà, ma più della realtà … - dice – Non è un sogno, ma un sognare da svegli”. Ed è curioso – e non posso fare a meno di sottolinearlo – che nel sogno da desti Ernst Bloch leggeva una delle metafore più pertinenti all’utopia, infatti “esso - scriveva ne Il principio speranza - discende da un ampliamento del sé e del mondo indirizzato in avanti, è voler star meglio, spesso è voler conoscere meglio in tutto e per tutto”.

Di tali suggestioni che invitano a una visione altra, Guglielmo Peralta raccoglie e rilancia l’invito ne Il teatro della soaltà, lucido, intrigante e ispirato volumetto che alla scena interiore – in un’epoca fatta sorda e cieca alla riflessione e tutta rovesciata nel fuori, proiettata nell’esteriorità, bombardata dalla multicolore e iperveloce effluorescenza di effimere immagini – intende ridonare una rinnovata intensità, una poietica e visionaria centralità. Soaltà è l’aspirazione e l’ispirazione della scrittura di Peralta: una lucida trascendenza che stia in equilibrio sulla sdrucciolevole buccia del nostro tempo e del (nostro) reale. La parola deve riacquistare pregnanza e slancio, pertinenza e intuizione.

Peralta ama giocare con le parole, ama la loro crasi, ama – come il Platone del Cratilo – intrecciare figure etimologiche che ridiano spessore a una lingua che rischia di imbolsire ed essiccarsi nei luoghi comuni o che si trastulla nel simulare, illusivamente, il parlato quotidiano a scopi emozionali. Questa mescolanza di parole, che fa sempre appello alla ragione, anela a rimettere in contatto le forze separate dell’Essere, a ricomporre in un lieve – e sornione – abbraccio i frammenti scomposti del mondo. Soaltà è la congiunzione di sogno e realtà, dove il sogno deve, comunque, avere la preminenza. “Essa – scrive Peralta nella Premessa ­­- elimina la contraddizione tra i concetti di realtà e sogno com-prendendoli in sé nella loro identità, offrendo dietro le quinte una rappresentazione, che apre il sipario sul mondo”. La soaltà è lo spazio in cui si guarda oltre la superficie e, aprendone il sipario, l’interiore insieme si dispone alla visione e dispone la visione dell’oltre. Teatro della soaltà è “rappresentazione di qualcosa che accade nella scena interiore”. Soaltà è quanto si immagina, appare e si agisce nel risvolto della palpebra.

Teatro, nella sua radice, contiene non soltanto l’idea del guardare, ma anche quella della teoria: essa era la processione degli dei che sin dall’origine apparivano nella cavità quasi materna di uno spazio circolare come quello greco; essa era la delegazione ufficiale inviata dalle polis alle grandi celebrazioni; essa era ed ancora è la formulazione, ragionata, di un modo di percepire, vedere, organizzare e giudicare i fatti del mondo. Per tale ragione il teatro della soaltà è teatro dello s-guardo, dove la s è sia privativa che rivelativa. Privativa, da una parte, in quanto sviluppa, scioglie, libera lo sguardo dalla congerie dei percetti quotidiani, dalla nebbia delle inarrestabili immagini che il virtuale contemporaneo ci rovescia addosso, relegando l’umano a registratore passivo e divertito.  Divertire proviene da divertere: distratto, separato dalla profondità del pensare e del com-prendere è lo spettatore contemporaneo. Il mondo teletrasmesso, aveva in effetti annunciato Gunther Anders ne L’uomo è antiquato, si propone di “produrre una serietà non-seria o una seria non-serietà”. Il mondo teletrasmesso stordisce, ottunde e confonde il pensare.  Il teatro della soaltà si cura di non farci precipitare, magari col sorriso sulle labbra, nella rete del tramortimento. Per questo – precisa Peralta  – il suo contrario è “Il teatro ‘leggero’, nelle sue varie forme e colorite espressioni - cabaret, satira, farsa, vaudeville - [quello che] sollecita il riso e ci fa divertire (divertĕre). Ci distrae, cioè, dalla profondità allontanandocene”. Rivelativo, allora, dall’altra parte, è il teatro della soaltà perché a ciò che sta dietro le quinte del reale ci richiama, perché di ciò che sta oltre la superficie si fa appello e ciò che si è smarrito nelle pieghe rumorose e vetrinizzate della realtà quotidiana si incarica di ri-presentare.

Esodo e quête è il teatro della soaltà. Un viaggio, una peregrinazione dell’(e dall’) occidente – la terra del tramonto, in questi ultimi tempi vissuto nel più acre e vano  disincanto, ma che pure ha saputo conoscere l’ombra e la notte, la mancanza delle verità e il dubbio metodico riguardo ad ogni certezza senza smarrire il logos e il suo raccontare dell’universale, l’ironia e la passione, la tradizione e la critica – verso l’oriente. Perché “l’est «è» il verbo di luce, in ascolto del quale si pone lo s-guardo sulla scena interiore. Affinché con l'«essere» il mondo impari a sognare”. Ritornare alle fonti dell’essere, fare un tuffo nella luce rigenerante dell’origine che pure rimane sempre nascosta è la sognante meta del teatro della soaltà. “La filosofia – aveva scritto Heidegger – è en route verso l’Essere degli enti, cioè verso l’ente rispetto all’Essere”. Dallo stupore aveva avuto origine il filosofare e dello stupore è compagno anche il poetare, ci ricorda Peralta. Un poetare che del logos sappia essere amico.

Tra apertura e nascondimento, Heidegger sottolineava, si muove l’arte del poeta. La sua arte, ci dimostra Peralta, è un portare alla luce e un consacrare con levità, in un’epoca, la nostra, che deve fare i conti con una lunga e sempre più svagata secolarizzazione. Di questo est sempre sfuggente, di questo lago di luce che seppur ineffabile sostiene la speranza e la voglia del dire e del canto, la scrittura di Peralta si fa invito alla parola e alla poiesis. Una scrittura che si vuole accogliente messa in forma, trasposizione, appello, invenzione di quanto rimane velato sotto la superficie. Nel mare infinito dei sogni bisogna naufragare senza perdere finezza e lucidità, per cogliere l’eidos, che “è l'idea, ed è la vista dello s-guardo che si fa sogno e lógos. Tramite lo s-guardo, l'idea migra e traluce nel grembo della parola. Si fa luce e ombra sulla scena del mondo”. La parola più veggente è quella che si riconosce anche siepe che il guardo esclude. L’ombra della parola sognatrice ma consapevole si fa esperienza della luce, è prova del suo saper sagomare e anche del suo far disparire, del suo aprire e del suo nascondere.

L’est è dunque non soltanto Essere (comunque ancora bisognoso e creatore delle sue qualità, dei suoi accidenti, del suo concretarsi) è anche est-etica, punto in cui si innesta, cioè, la pianta dell’etica, dove è possibile supporne il rigoglio, il caldo splendore ‘estivo’. In quanto tale, l’est diviene lo spazio – la radura avrebbe detto Heidegger – in cui avviene lo spettacolo d’autore della bellezza/luce, quasi reminiscenza di ascendenza platonica e plotiniana. A questo spettacolo il poeta dà voce nella soaltà. Di questo spettacolo il poeta aumenta (auctor da augeo) fa crescere, coltivandoli, l’intensità e il brillio. Così che il Teatro della soaltà è soprattutto filocalia: “nel teatro della soaltà va di scena la Bellezza. Essa innamora lo s-guardo. Ed è luce sacra, che apre il sipario nel mondo”. Si dà così rappresentanza e rappresentazione a un progetto di auscultazione e visione del profondo. Un progetto di cartografia, anzi, come scrive l’autore, di biografia dello Spirito. Un proposito etico e pedagogico accompagna questo viaggio: la paideia dello Spirito apre gli occhi al sogno e dissipa la catalessi e la brutalità impiantata dal tempo attuale.

In Minima moralia Adorno scriveva che “quando ci si sveglia nel bel mezzo di un sogno, per quanto brutto e angoscioso potesse essere, si rimane delusi e si ha l’impressione di essere stati defraudati della parte migliore”. Certo, continuava il filosofo di Francoforte, i sogni rischiano di portare con loro la coscienza della loro illusorietà. Ma proprio per questo anche i sogni più belli “sono come solcati da crepe invisibili”. Essi discoprono nelle loro cicatrici l’altrove, il possibile che gli umani tante volte obliano. Raccontano forse la possibilità dell’impossibile? Resistono, forse, alla riduzione cinica delle speranze e dei desideri degli umani?

Per dare una qualche concreta possibilità a questa ipotesi bisognerebbe forse coniugare razionalità e visionarietà, misticismo e illuminismo, come avrebbe fatto Walter Benjamin, che “obbliga il concetto a operare esso stesso – come Adorno scrive in Prismi   ad ogni istante ciò che altrimenti è riservato all’esperire aconcettuale”?

Sul crinale tra slancio dell’ispirazione e rigore razionale si gioca il sognare della soaltà. “Nel teatro della soaltà lo s-guardo è la presa di coscienza che fa del sogno un atto razionale”. Favorire la sognagione è la tensione che con levità e rigore Peralta ci raccomanda. Favorire la sognagione è promuovere il rifiorire della virtù dello s-guardo e, insieme, coltivarlo.  È ritrovarsi sotto la cupola di un tempio celeste a con-templare il fondo dell’Essere, a suscitare, nuovamente, una serena meraviglia che dischiuda le migliori potenzialità dell’umano. Come Benjamin, secondo Adorno, avrebbe ipotizzato “la salvezza di ciò che è morto”, così per Peralta “nel teatro interiore, il mondo sogna la propria ‘resurrezione’. Sulla scena esteriore la ‘passione’ è la bellezza sulla via del Calvario”.

Al poeta, a quest’Icaro pur fragilissimo, è affidato il compito di far volare la parola, senza però dimenticare la cupezza dell’epoca, in cui gli dei e i cosiddetti valori sono trasmigrati o spariti. “Il teatro della soaltà è questo volo di Icaro – scrive Peralta – in un cielo senza dèi, dentro una scena che ripropone quel volo all'infinito: l’atto teatrale per eccellenza, nel quale coesistono il rischio e la sfida, la gioia e la pena, la passione e il tormento”. Il poeta è un equilibrista che si libra sul filo teso tra sogno e realtà. Di tale sottilissimo filo il poeta non fa solo una linea di demarcazione, ma, soprattutto, una linea di congiunzione.

“Perché i fiori – domanda la figlia di Indra – spuntano dalla sporcizia?”. “Nella sporcizia – le risponde il padre vetraio – non si sviluppano, per questo salgono quanto più in fretta possono verso la luce, per fiorire in essa, e morire”. Questo desiderio di ascensione, di sfuggire alle mende e alla pochezza del vivere, brilla nel testo di Peralta per cui: “abitare la scena e praticarla è acquisire uno stile di vita orientato al bello e vissuto in armonia con la natura soale”.

Non frequenta l’incubo il teatro della soaltà. In effetti si raccomanda alla ragione e il sonno della ragione (el  sueño de la razon, come si legge nel foglio 43 de Los Caprichos di Goya) genera i mostri. E se volessimo tradurre, pure sarebbe plausibile, il termine sueño usato nel Capriccio n. 43 non con sonno ma con sogno, sì che sarebbe il sogno della ragione a generare mostri? Anche in questo caso Peralta è accorto e ci avverte che è necessario diffidare anche di un tale sogno che nella onnipotenza del tecnologico si im-pone.

“Coltivare il canto è portare la luce nel mondo. La ragione, che si adegua alla Bellezza, riflette e agisce con senso est-etico. Ed è questo il nuovo illuminismo. Ad esso volgano il passo i pellegrini del sogno e della luce”. Soavità e rigore, visionarietà e ironia si congiungono dunque nella scrittura di Peralta. Essa conosce il balbettio, anzi l’afasia cacofonica in cui il mondo rischia di precipitare, ma non smette di sognare, da desta, un più delicato slancio. A buon diritto, dunque, il teatro della soaltà riconosce tra i suoi antecedenti il teatro dell’assurdo. “Il teatro della soaltà si pone in continuità col teatro dell’assurdo – scrive infatti – in quanto ne persegue la medesima finalità: promuovere la ricerca del vero e del senso più autentico. Tuttavia, al delirio e al vaniloquio esso sostituisce il gusto razionale e comunica poetica-mente senza essere mai paradossale”. L’assurdo ci ha svelato il tragico abisso in cui erano risucchiati gli umani. Peralta trae da esso, però, da buon sognatore ad occhi aperti, l’impulso per una sorta di nuova metamorfosi. Alla luce della più generosa capacità di guardare, che è la virtù dello s-guardo.

 

 

 

 

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