mercoledì 26 aprile 2017

Polisemia e nominazione nel mundus imaginalis della soaltà di Guglielmo Peralta, di Antonio Martorana


       Un duplice obiettivo persegue il saggio "La via dello stupore nella visione est-etica della soaltà" di Guglielmo Peralta: quello di tracciare una teoria estetica il cui statuto ontologico ribadisca la centralità della Bellezza ed il suo valore salvifico nello scenario inquietante della post-modernità; e quello di enucleare una poetica che, in coerenza con quell'assunto teorico, presenti nella sua strutturazione triadica (la coabitazione di Realtà e Sogno "nell'unione profonda della Soaltà") la carica eversiva della sua forza visionaria.
       Il termine stesso "Soaltà" sembrerebbe evocare la metafisica del bello come luminosità, uno dei due filoni del pensiero estetico cristiano nel Medioevo, che fa capo a Roberto Grossatesta e a San Bonaventura, mentre l'altro filone, ossia la teoria del bello come 'numero', misura, proporzione, ha tra i suoi esponenti Sant'Agostino, Boezio e San Tommaso. Ma al di là di tali posizioni, spesso così contrapposte, che in un certo senso ripropongono il confronto dialettico tra eredità platonica ed eredità aristotelica, il significato più interessante del pensiero estetico medievale consiste, come avverte Gianni Vattimo, nell'accentuazione del concetto di opera. Ed allora il mondo, in quanto opera di Dio, presenta come suoi caratteri peculiari, oltre alla verità e alla bontà, anche la Bellezza. Vattimo  afferma che "senza la visione cristiana del mondo come opera di Dio non sarebbe stato possibile pervenire a quella connessione tra opera d'arte e bellezza su cui riposa l'estetica come noi la conosciamo", e su cui riposa, aggiungiamo noi, la stessa estetica di Guglielmo Peralta.
       Il fatto che egli riporti il termine estetica nella forma spezzata est-etica, evidenzia quale spessore etico intende dare al concetto di bellezza. Ricordiamo quella straordinaria lettera inviata agli artisti da Giovanni Paolo II il 4 aprile 1999, per la Pasqua di Resurrezione. Viene lanciato qui un appello perché la loro creatività "contribuisca all'affermarsi di una bellezza autentica, che, quasi riverbero dello spirito di Dio, trasfiguri la materia, aprendo gli animi al senso dell'eterno".
       Come destinatario ideale del messaggio papale, Peralta obbedisce al cogente imperativo etico che impone alla coscienza dell'artista di riconoscere che "la bellezza è la vocazione a lui rivolta dal Creatore". Si può già intuire il senso pregnante della simbologia che connota il cammino dell'Autore sulla via dello stupore. È un'esperienza emozionale che sarebbe come percorrere il "diagramma dell'indicibile" di cui parla Heidegger. Indicibile, e già Dante stesso non esitava a confessare questa sua difficoltà, sarebbe rispondere al richiamo fascinoso e possente del mistero, così come indicibile sarebbe il brivido provato dinanzi all'incanto del Verbo che emana dal dettato biblico nelle pagine della Genesi. Ma un poeta come Peralta, chiamato, direbbe Paul Claudel, a "ricevere l'essere e restituire l'eterno" non può sottrarsi a quella sfida, essendo suo preciso compito quello della nominazione (nomen - numen). Colpisce allora l'inesauribile ricchezza polisemica della nominazione con cui il Nostro, al di là degli automatismi retorici e delle forme convenzionali di un sistema linguistico ipostatizzato, sa recuperare tutta l'energia che, occultata, giace sotto il segno. È il rifiuto di quella pan-semiosi, dove, avverte Maurizio Della Casa, "non vi è più un oggetto da dire, ma solo un linguaggio da pronunciare, in cui i rimandi e la costruzione dei sensi si esauriscono nel cerchio dei codici e dei simboli, in una spirale che non riesce mai ad attingere alla presenza delle cose"[1]. C'è in Peralta il bisogno di liberarsi dalle maglie di una visione precostituita del reale, insabbiata in parole costrette dalla convenzione semantica ad essere depositarie di un'unica immutabile valenza. La creatività linguistica di Peralta, riconducibile per la sua forte spinta innovativa al modello chomskiano, si manifesta con quella prorompente inesauribilità che il linguista Luis J. Prieto vede realizzabile all'interno di un codice comportante un numero infinito di semi. La creatività, precisa Prieto, altro non è se non "la possibilità per un soggetto di operare con un sema che per lui sia assolutamente nuovo in quanto sema, ma che venga costituito da una combinazione di monemi a lui noti, fatta secondo regole che gli sono ugualmente familiari"[2].
       È Peralta stesso ad esplicitare il perché e la funzione dei suoi neologismi: "portatori di una visione nuova, inedita, che essi annunciano ponendoci in cammino con la promessa di una rivelazione", finiscono per innestare "un processo creativo che essi stessi contribuiscono ad esplicitare attraverso un metalinguaggio che, nel tentativo di spiegare il loro significato, finisce per tradurre e dare forma a quanto è in essi contenuto" (p. 38). Termini come soaltà, sognagione, kalosfera, spazio antropografico non fanno che supplire "all'insufficienza lessicale, alla mancanza di parole che siano ancelle, angeliche messaggere di un  pensiero nuovo" rivestendo in tal modo una funzione gnoseologica nell'esplorazione della realtà.
       Guglielmo Peralta offre in tal modo una chiara dimostrazione delle potenzialità "inesauribili" insite in quella che James Hillman definisce la "base poetica della mente". Quei neologismi rendono specularmente il mundus imaginalis dell'Autore, che è come dire la sua psiche, stando alla massima fissata da Jung: "l'immagine è psiche"[3]. Schiudono un orizzonte immaginale che richiede facoltà percettive diverse dalla normale percezione sensoriale del mondo empirico, ponendosi in una posizione mediana tra la realtà sensibile e quella intelligibile. Il mundus imaginalis di Peralta viene a configurarsi come la "topologia dell'essere" di cui parla Heidegger[4]. Su di esso irradia la sua luce la soaltà, termine eponimo indicante "l'unione indissolubile tra sogno e realtà" ed indirettamente un ritrovato equilibrio armonico tra coscienza diurna e oniricità. Vediamo dissolversi i nebulosi confini che separano il momento razionale delle certezze sperimentali dal regno oscuro dell'involontario. L'attività autogenerativa dell'anima di Peralta crea così una dimensione di magica sospensione che ricorda, a mio avviso, i grandi pittori visionari dell'Ottocento, come Gustave Moreau. Questi affermava: "Non credo né a quello che tocco né a quello che vedo. Non credo che a quello che non vedo e unicamente a quello  che sento". Sono parole che Peralta potrebbe sottoscrivere nel momento in cui volge lo sguardo "al di là" delle illusorie apparenze fenomeniche, per cui la natura, l'oggetto per eccellenza, si trasforma in soggetto, in "altro da noi", e noi diventiamo nei riguardi di essa oggetto riflettente.
       Quando Peralta precisa che l'introduzione dei neologismi è finalizzata a supplire "all'insufficienza lessicale", rivendica un diritto alla creatività che non può essere garantito dalla finzione - costruzione del linguaggio codificato, da quel monstrum onnivoro, che preclude al parlante qualsiasi possibilità di feed-back. In tal modo egli si pone in linea con le posizioni più avanzate dell'odierna filosofia del linguaggio, pronta a denunciare, come fa Schaff, gli effetti delle determinazioni filogenetiche del linguaggio, per cui questo è il "prodotto" che ha finito per sovrapporsi al "produttore", imponendogli stereotipi, meccaniche semiotiche ed automatismi che lasciano emarginato il sottocodice emotivo[5]. Possono aiutarci a comprendere il senso dello sperimentalismo linguistico di Peralta i passi che qui riportiamo di due autorevoli filosofi del linguaggio: il primo è di Gadamer che richiama l'attenzione sulla "esigenza inappagata della parola giusta"; il secondo è tratto dagli Atti linguistici di Searle. Afferma Gadamer: la parola "è un voler dire, un intendere, sfiorandolo appena, va sempre aldilà di quel che realmente, nella lingua, nelle parole raggiunge l'altro. Un'esigenza inappagata della parola giusta: ecco che cosa costituisce la vera vita e la vera essenza del linguaggio"[6]. Sono estremamente interessanti pure le conclusioni cui approda Searle: "perfino nei casi in cui è di fatto impossibile dire esattamente quel che voglio dire, è possibile, in linea di principio, se non in pratica, aumentare la mia conoscenza della lingua, o più radicalmente, se la lingua o le lingue esistenti non sono adeguate al compito, se esse semplicemente mancano delle risorse per dire quel che voglio dire, posso, perlomeno in teoria, arricchire la lingua introducendovi nuove parole"[7]. La tesi di Searle finisce in un certo senso per legittimare i neologismi introdotti da Peralta facendo apprezzare l'attualità e l'originalità della sua estetica.


[1] M. Della Casa, Lingua Testo Significato, Brescia, La Scuola, 1979, p.19
[2] L. J. Prieto, La sémiologia, in Le langage, a cura di A. Martinet, Paris, 1968, pp. 93-144
[3] The Collected Works of C. G. Yung, New York - London - Princeton, 1957-1979; tr. it. Torino, 1970-1979, vol. XIII, p. 75
[4] Pensiero e poesia, tr. it.  Roma, Armando, 1977, p. 55
[5] A. Schaff, Filosofia del linguaggio, tr. it.  Roma, Editori Riuniti, 1969, pp. 182-83
[6] H. G. Gadamer, I limiti del linguaggio, in Linguaggio, a cura di D. Di Cesare, Bari, Laterza, 2005, p. 71
[7] J. R. Searle, Atti linguistici, tr. it.  di G. R. Cardona, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 44-45

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