Un duplice obiettivo persegue il saggio "La via dello stupore nella
visione est-etica della soaltà" di Guglielmo Peralta: quello di tracciare
una teoria estetica il cui statuto ontologico ribadisca la centralità della
Bellezza ed il suo valore salvifico nello scenario inquietante della
post-modernità; e quello di enucleare una poetica che, in coerenza con
quell'assunto teorico, presenti nella sua strutturazione triadica (la
coabitazione di Realtà e Sogno "nell'unione profonda della Soaltà")
la carica eversiva della sua forza visionaria.
Il termine stesso "Soaltà" sembrerebbe evocare la metafisica
del bello come luminosità, uno dei due filoni del pensiero estetico cristiano
nel Medioevo, che fa capo a Roberto Grossatesta e a San Bonaventura, mentre
l'altro filone, ossia la teoria del bello come 'numero', misura, proporzione,
ha tra i suoi esponenti Sant'Agostino, Boezio e San Tommaso. Ma al di là di
tali posizioni, spesso così contrapposte, che in un certo senso ripropongono il
confronto dialettico tra eredità platonica ed eredità aristotelica, il
significato più interessante del pensiero estetico medievale consiste, come
avverte Gianni Vattimo, nell'accentuazione del concetto di opera. Ed allora il
mondo, in quanto opera di Dio, presenta come suoi caratteri peculiari, oltre
alla verità e alla bontà, anche la Bellezza. Vattimo afferma che "senza la visione cristiana
del mondo come opera di Dio non sarebbe stato possibile pervenire a quella
connessione tra opera d'arte e bellezza su cui riposa l'estetica come noi la
conosciamo", e su cui riposa, aggiungiamo noi, la stessa estetica di
Guglielmo Peralta.
Il fatto che egli riporti il termine estetica nella forma spezzata
est-etica, evidenzia quale spessore etico intende dare al concetto di bellezza.
Ricordiamo quella straordinaria lettera inviata agli artisti da Giovanni Paolo
II il 4 aprile 1999, per la Pasqua di Resurrezione. Viene lanciato qui un
appello perché la loro creatività "contribuisca all'affermarsi di una
bellezza autentica, che, quasi riverbero dello spirito di Dio, trasfiguri la
materia, aprendo gli animi al senso dell'eterno".
Come destinatario ideale del messaggio papale, Peralta obbedisce al
cogente imperativo etico che impone alla coscienza dell'artista di riconoscere
che "la bellezza è la vocazione a lui rivolta dal Creatore". Si può
già intuire il senso pregnante della simbologia che connota il cammino
dell'Autore sulla via dello stupore. È un'esperienza emozionale che sarebbe
come percorrere il "diagramma dell'indicibile" di cui parla
Heidegger. Indicibile, e già Dante stesso non esitava a confessare questa sua
difficoltà, sarebbe rispondere al richiamo fascinoso e possente del mistero,
così come indicibile sarebbe il brivido provato dinanzi all'incanto del Verbo
che emana dal dettato biblico nelle pagine della Genesi. Ma un poeta come
Peralta, chiamato, direbbe Paul Claudel, a "ricevere l'essere e restituire
l'eterno" non può sottrarsi a quella sfida, essendo suo preciso compito
quello della nominazione (nomen - numen). Colpisce allora l'inesauribile
ricchezza polisemica della nominazione con cui il Nostro, al di là degli
automatismi retorici e delle forme convenzionali di un sistema linguistico
ipostatizzato, sa recuperare tutta l'energia che, occultata, giace sotto il
segno. È il rifiuto di quella pan-semiosi, dove, avverte Maurizio Della Casa,
"non vi è più un oggetto da dire, ma solo un linguaggio da pronunciare, in
cui i rimandi e la costruzione dei sensi si esauriscono nel cerchio dei codici
e dei simboli, in una spirale che non riesce mai ad attingere alla presenza
delle cose"[1]. C'è in Peralta
il bisogno di liberarsi dalle maglie di una visione precostituita del reale,
insabbiata in parole costrette dalla convenzione semantica ad essere
depositarie di un'unica immutabile valenza. La creatività linguistica di
Peralta, riconducibile per la sua forte spinta innovativa al modello
chomskiano, si manifesta con quella prorompente inesauribilità che il linguista
Luis J. Prieto vede realizzabile all'interno di un codice comportante un numero
infinito di semi. La creatività, precisa Prieto, altro non è se non "la
possibilità per un soggetto di operare con un sema che per lui sia
assolutamente nuovo in quanto sema, ma che venga costituito da una combinazione
di monemi a lui noti, fatta secondo regole che gli sono ugualmente
familiari"[2].
È Peralta stesso ad esplicitare il perché e la funzione dei suoi
neologismi: "portatori di una visione nuova, inedita, che essi annunciano
ponendoci in cammino con la promessa di una rivelazione", finiscono per
innestare "un processo creativo che essi stessi contribuiscono ad
esplicitare attraverso un metalinguaggio che, nel tentativo di spiegare il loro
significato, finisce per tradurre e dare forma a quanto è in essi
contenuto" (p. 38). Termini come soaltà, sognagione, kalosfera, spazio
antropografico non fanno che supplire "all'insufficienza lessicale, alla
mancanza di parole che siano ancelle, angeliche messaggere di un pensiero nuovo" rivestendo in tal modo
una funzione gnoseologica nell'esplorazione della realtà.
Guglielmo Peralta offre in tal modo una chiara dimostrazione delle
potenzialità "inesauribili" insite in quella che James Hillman
definisce la "base poetica della mente". Quei neologismi rendono
specularmente il mundus imaginalis
dell'Autore, che è come dire la sua psiche, stando alla massima fissata da
Jung: "l'immagine è psiche"[3]. Schiudono un
orizzonte immaginale che richiede facoltà percettive diverse dalla normale
percezione sensoriale del mondo empirico, ponendosi in una posizione mediana
tra la realtà sensibile e quella intelligibile. Il mundus imaginalis di Peralta viene a configurarsi come la
"topologia dell'essere" di cui parla Heidegger[4]. Su di esso
irradia la sua luce la soaltà, termine eponimo indicante "l'unione
indissolubile tra sogno e realtà" ed indirettamente un ritrovato
equilibrio armonico tra coscienza diurna e oniricità. Vediamo dissolversi i
nebulosi confini che separano il momento razionale delle certezze sperimentali
dal regno oscuro dell'involontario. L'attività autogenerativa dell'anima di
Peralta crea così una dimensione di magica sospensione che ricorda, a mio
avviso, i grandi pittori visionari dell'Ottocento, come Gustave Moreau. Questi
affermava: "Non credo né a quello che tocco né a quello che vedo. Non
credo che a quello che non vedo e unicamente a quello che sento". Sono parole che Peralta
potrebbe sottoscrivere nel momento in cui volge lo sguardo "al di là"
delle illusorie apparenze fenomeniche, per cui la natura, l'oggetto per
eccellenza, si trasforma in soggetto, in "altro da noi", e noi
diventiamo nei riguardi di essa oggetto riflettente.
Quando Peralta precisa che l'introduzione dei neologismi è finalizzata a
supplire "all'insufficienza lessicale", rivendica un diritto alla
creatività che non può essere garantito dalla finzione - costruzione del
linguaggio codificato, da quel monstrum
onnivoro, che preclude al parlante qualsiasi possibilità di feed-back. In tal
modo egli si pone in linea con le posizioni più avanzate dell'odierna filosofia
del linguaggio, pronta a denunciare, come fa Schaff, gli effetti delle
determinazioni filogenetiche del linguaggio, per cui questo è il
"prodotto" che ha finito per sovrapporsi al "produttore",
imponendogli stereotipi, meccaniche semiotiche ed automatismi che lasciano
emarginato il sottocodice emotivo[5].
Possono aiutarci a comprendere il senso dello sperimentalismo linguistico di
Peralta i passi che qui riportiamo di due autorevoli filosofi del linguaggio:
il primo è di Gadamer che richiama l'attenzione sulla "esigenza inappagata
della parola giusta"; il secondo è tratto dagli Atti linguistici di
Searle. Afferma Gadamer: la parola "è un voler dire, un intendere,
sfiorandolo appena, va sempre aldilà di quel che realmente, nella lingua, nelle
parole raggiunge l'altro. Un'esigenza inappagata della parola giusta: ecco che
cosa costituisce la vera vita e la vera essenza del linguaggio"[6]. Sono
estremamente interessanti pure le conclusioni cui approda Searle: "perfino
nei casi in cui è di fatto impossibile dire esattamente quel che voglio dire, è
possibile, in linea di principio, se non in pratica, aumentare la mia
conoscenza della lingua, o più radicalmente, se la lingua o le lingue esistenti
non sono adeguate al compito, se esse semplicemente mancano delle risorse per
dire quel che voglio dire, posso, perlomeno in teoria, arricchire la lingua
introducendovi nuove parole"[7].
La tesi di Searle finisce in un certo senso per legittimare i neologismi
introdotti da Peralta facendo apprezzare l'attualità e l'originalità della sua
estetica.
[1] M. Della Casa, Lingua Testo Significato, Brescia, La
Scuola, 1979, p.19
[2] L. J. Prieto, La sémiologia, in Le langage, a cura di A. Martinet, Paris, 1968, pp. 93-144
[3] The Collected Works of C.
G. Yung, New York - London - Princeton, 1957-1979;
tr. it. Torino,
1970-1979, vol. XIII, p. 75
[4] Pensiero e poesia, tr. it.
Roma, Armando, 1977, p. 55
[5] A. Schaff, Filosofia del linguaggio, tr. it.
Roma, Editori Riuniti, 1969, pp. 182-83
[6] H. G. Gadamer, I limiti del linguaggio, in Linguaggio, a cura di D. Di Cesare,
Bari, Laterza, 2005, p. 71
[7] J. R. Searle, Atti linguistici, tr. it. di G. R. Cardona, Bollati Boringhieri, 1992,
pp. 44-45
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